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ROMEO bUFALO, L’amore dei classici. Per un’erotica del sapere


                           ra classica (dell’Antigone in questo caso) non si consuma storicamente
                           nel tempo in cui e per cui è sorta. C’è, in ogni opera d’arte cui ricono-
                           sciamo lo statuto di “classico”, una capacità di universalizzare gli ele-
                           menti sensibili-immaginativi di cui si compone rendendoli disponibili
                           a nuove esperienze estetiche di senso. Perché i problemi connessi al
                           “funzionamento” dell’animo, del pensiero, del sentimento umani non
                           sono risolvibili in significati dati una volta per tutte alla stregua di una
                           legge scientifico-naturale, ma si ripropongono in relazioni di senso
                           sempre nuove.
                                 L’Antigone ci consente di proporre un altro esempio che riguar-
                           da, questa volta, la pluralità di significazioni, l’eccedenza di senso di
                           cui si carica uno stesso termine in contesti espressivi diversi. Si consi-
                           deri, ad esempio, il modo in cui si “risignifica” (generando un piacere
                           estetico non legato ad alcuna conoscenza particolare, ma che riposa
                           esclusivamente sull’arricchimento di senso di cui fa esperienza il letto-
                           re) un banalissimo oggetto come una semplice “pietra” in alcuni testi
                           poetici  fra  loro  molto  diversi  per  sensibilità  storico-sociale  e  per
                           “gusto” letterario:
                                 1) Sofocle, Antigone (vv. 823 e ss.): «A.: Ho sentito dire come assai
                           compianta l’ospite frigia, figlia di Tantalo, perì sulle vette del Sipilo:
                           come, edera tenace, una pietrosa vegetazione la coprì […]; ed ora, quan-
                           to simile a lei, un dèmone mi corica nella pietra»;
                                 2) Dante, Canzoniere (CII): «Questa gentil petra / mi vedrà coricare
                           in poca petra / per non levarmi se non dopo il tempo / quando vedrò se
                           mai fu bella donna / nel mondo come questa acerba donna» ;
                                                                                     44
                                 3) Leopardi, A Silvia: «All’apparir del vero tu, misera, cadesti
                           / E con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda mostravi da
                           lontano».
                                 Nella già citata Critica del gusto Galvano Della Volpe dice che
                           noi non “gusteremmo” poeticamente il verso leopardiano se lo sgan-
                           ciassimo  dal  senso  ateo di  quell’«apparir  del  vero»  connesso  alla
                           «tomba ignuda»; mentre il cosiddetto pathos artistico dei versi dan-
                           teschi è legato alle convinzioni teologiche (escatologiche) del credente





                           44  D. Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1956, p. 171.



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