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ROMEO bUFALO, L’amore dei classici. Per un’erotica del sapere



                           del desiderio amoroso, abbia colto una tendenza fondamentale del
                           comportamento umano, che è l’eredità più cospicua e feconda lascia-
                           taci dai classici. Da tutti i classici, non solo da quelli antichi. L’intreccio
                           chiasmatico che lega piacere e conoscenza (un piacere che sa e un sa-
                           pere che gode) ci dice infatti qualcosa di essenziale sul modo in cui
                           funziona il nostro apparato cognitivo e affettivo. Su ciò che non è sog-
                           getto a evoluzione, ma che, standone all’origine, condiziona e rende
                           possibile l’evoluzione. In altri termini, ogni volta che conosciamo è
                           come se ripercorressimo un tratto del Fedro o del Simposio, perché la
                           teoria dell’amore ivi delineata non è confinabile in uno spazio mitico,
                           ma delimita uno spazio tipicamente umano.
                                 I Greci scoprirono, tramite Platone, che ciò che massimamente
                           suscita piacere alla vista (e agli altri sensi), ossia la bellezza delle forme
                           sensibili (o dell’ordine del significante), non può essere conosciuto (un
                           piacere che non sa); mentre la verità propria delle essenze, ossia della
                           scienza (o dell’ordine del significato), non può essere vista (un godi-
                           mento che non sa). Questo incrocio paradossale tra piacere e cono-
                           scenza dà vita, secondo Agamben, a quell’“altro sapere” di cui Eros
                           esprime egregiamente i risvolti mitici. Forse, come ha efficacemente
                           scorto Montesquieu, il piacere provocato dalle forme della bellezza,
                           ossia dalle forme sensibili-immaginative delle opere d’arte, consiste
                           nella percezione di una inadeguatezza, di una sproporzione tra la co-
                           noscenza e il suo oggetto. La bellezza che attribuiamo ai classici si chia-
                           risce allora come l’attivazione di un desiderio relativo a un oggetto
                           vuoto. Una sorta di puro significante che nessun significato riesce a
                           colmare. Il piacere estetico comprendente di cui parla Jauss è legato
                           dunque a questa eccedenza di senso che investe il destinatario di un
                           testo classico. Consiste, cioè, in quella capacità di percezione di rapporti,
                           cioè di relazioni sensate tra cose diverse e distanti, di cui parlava Denis
                                                                         38
                           Diderot nella voce Bello scritta per l’Encyclopédie .




                           38  Ma anche in ciò che Galvano Della Volpe chiamava, nella Critica del gusto
                           (in Id., Opere, a cura di I. Ambrogio, vol. VI, Editori Riuniti, Roma 1973), «po-
                           lisenso» come luogo specifico della poesia (e dell’arte in genere); o in ciò che
                           Francesco Orlando, in Illuminismo, Barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino
                           1997, definiva «tasso di figuralità di un testo letterario» (ivi, p. 12).



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