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ROMEO bUFALO, L’amore dei classici. Per un’erotica del sapere
giovane Nietzsche, nelle sue lezioni sui filosofi preplatonici del 1872
sosteneva che la parola sophos (“saggio”) appartiene alla famiglia di
sapĭo (sapĕre = gustare, sentire il sapore, ma anche esser saggio, cono-
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scere); tanto è vero che saphēs indica il “gustante” (come sapiens) . In
questa ricostruzione il gusto contiene, in forma condensata, la frattura
metafisica che, secondo Agamben, è all’origine del pensiero occiden-
tale. L’esperienza conoscitiva, cioè, è caratterizzata da una sempre rin-
novantesi interferenza tra piacere e sapere, come sarà attestato, tipi-
camente, da Kant, secondo il quale i giudizi di gusto, pur non facen-
doci conoscere alcunché di determinato, appartengono tuttavia alla
facoltà di conoscere, e rivelano una relazione immediata di tale facoltà
con il sentimento di piacere. Ora, in che cosa consiste questo piacere ra-
dicato nella conoscenza? L’origine del problema viene individuata da
Agamben nella scissione originaria dell’oggetto della conoscenza in
verità e bellezza, sapere e desiderio.
Nella formulazione platonica questa frattura è così originale che si può
dire che sia essa stessa a costituire il pensiero occidentale non come sophía,
ma come filo-sophía. Solo perché verità e bellezza sono originariamente
scisse; solo perché il pensiero non può possedere integralmente il proprio
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oggetto, esso deve diventare amore della sapienza, cioè filosofia .
Quasi tutto il mondo classico greco è attraversato, nelle sue più diverse
manifestazioni culturali, da questa idea di una insanabile frattura tra
oggetto del sapere e capacità di possederlo interamente, definitiva-
mente. Sono questa frattura e questo scarto sempre risorgenti che ac-
cendono il desiderio erotico come tensione in-definita, che trova in
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particolare nel Fedro platonico la sua formulazione più perspicua . Da
questo punto di vista, si può dire che Platone, formulando la teoria
35 G. Agamben, op. cit., p. 10.
36 Ivi, p. 13.
37 Vedi, in particolare, Fedro 249d-252b, in cui Platone dice che la vista, la più
acuta delle sensazioni corporee, non ci consente di vedere la saggezza, il pen-
siero. Riusciamo però a vedere, nelle cose belle, la bellezza che ci trasporta,
eroticamente, dalle forme sensibili verso le essenze intelligibili.
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