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ROMEO bUFALO, L’amore dei classici. Per un’erotica del sapere


                           antiquario che si esplica nella cura con cui riponiamo quei reperti e
                           quei resti nelle teche di un laboratorio scientifico o nelle sale di un
                           museo. Un classico, come si accennava sopra, oltre a essere distante, o
                           “qualcosa di passato”, come Hegel considerava la bellezza greca, deve
                           essere anche vicino. Deve, cioè, continuare a parlare alle epoche suc-
                           cessive a quella in cui e per cui è stato prodotto. È qualcosa di passato
                           che, se opportunamente interrogato, riesce sempre a rispondere alle
                           sollecitazioni del presente. Italo Calvino sosteneva che un classico è
                           davvero un classico quando la sua prima lettura sembra, in realtà, una
                           rilettura. E, per converso, la sua rilettura è come se fosse una prima
                           lettura. Per questo un classico è un testo (scritto, udito o visto) che non
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                           ha ancora finito di dire ciò che ha da dire .
                                 Il tema della distanza dai classici richiama la questione, cruciale
                           nella prospettiva ermeneutica contemporanea, del rapporto tra il pre-
                           sente storico e la tradizione. Il problema è stato approfonditamente trat-
                           tato da Hans-Georg Gadamer nella seconda parte della sua opera prin-






                           3  I. Calvino, Perché leggere i classici, in Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. ba-
                           renghi, Mondadori, Milano 1995, p. 1818. La coppia concettuale distanza/vi-
                           cinanza è molto simile, sul piano logico e semantico, a quella costituita dai
                           poli estraneità/familiarità. Sull’estraneità (o distanza) come requisito essen-
                           ziale della messa-a-fuoco e del ri-conoscimento si è soffermato (ma senza un
                           riferimento esplicito al “classico”) Carlo Ginzburg in Occhiacci di legno. Nove
                           riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998 (di cui si veda, in particolare,
                           il primo saggio Straniamento. Preistoria di un procedimento letterario, pp. 15-39).
                           Sull’estraneità/familiarità come requisito del classico hanno invece richiamato
                           l’attenzione, più recentemente, J. brunschswig e G.E.R. Lloyd nel saggio in-
                           troduttivo al volume collettivo, da loro curato, Il sapere greco. Dizionario critico
                           (edizione italiana a cura di M.L. Chiesara, Einaudi, Torino 2005). A loro av-
                           viso, le opere “classiche” instaurano con noi “moderni” un rapporto duplice
                           di estraneità e familiarità, lontananza e vicinanza. L’impressione di familiarità
                           (a causa del valore universale dei temi che quelle opere trattano) e la sensa-
                           zione di distanza temporale che ne accompagna l’esperienza, danno vita a un
                           gioco complesso. «Siamo a casa – scrivono gli autori – ma in un paese lontano;
                           visitiamo luoghi remoti restando nella nostra camera o nell’ingresso, eppure
                           quello che facciamo entro le mura della nostra abitazione è un vero e proprio
                           viaggio. In un certo senso, ogni nostro pensiero passa attraverso una rifles-
                           sione sui Greci, e in una qualche misura li implica» (ivi, pp. XVII-XVIII).



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