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ROMEO bUFALO, L’amore dei classici. Per un’erotica del sapere



                           come Pareto, Sorel e Weber, ad esempio, “classico” era il rifiuto delle
                           illusioni implicite nell’idea di progresso e di democrazia. Indicava il
                           prevalere del senso del finito e delle distinzioni, massimamente di
                           quella tra umano e divino, su ogni confusione e caoticità del presente.
                           La polemica antidemocratica connessa con questa lettura politica della
                           classicità non mancò di rovesciarsi drammaticamente in una serie di
                           richiami all’ordine che, come è noto, risuonarono sinistramente nel-
                           l’Europa degli anni Venti e Trenta.
                                 Ma oggi, venute meno le ragioni, storico-politiche e culturali,
                           per cui “classico” è stato sinonimo di una rigidità normativa declinata,
                           sul piano socio-politico, in termini di “ordine e disciplina”, sulla cui
                           base sorsero, anche, le dittature più nefaste del secolo appena trascor-
                           so, possiamo forse tornare a guardare quel mondo con occhi nuovi,
                           senza pregiudizi (o meglio, con nuovi “pre-giudizi”; con quelli che
                           Hans-Georg Gadamer ha chiamato “pregiudizi positivi”, come vedre-
                           mo tra poco), in modo da valutare se i classici abbiano ancora qualcosa
                           da dirci, e cosa e quanto di “storicamente non esaurito” incorporino
                           le loro forme culturali ed essi rivelino a chi li sappia interrogare.



                           2. Così lontani, così vicini


                           Vorrei partire, in queste considerazioni sul rapporto con i classici, da
                           un’osservazione forse scontata ma essenziale ai fini del discorso che
                           seguirà. Qualcosa (un’opera, un evento, un modo di pensare) può
                           aspirare a essere un “classico” solo se è temporalmente distante rispet-
                           to al soggetto, singolare o collettivo, che formula il giudizio. Certo, a
                           volte anche un contemporaneo viene definito un classico, ma in tal
                           caso l’appellativo viene impiegato proprio per sottolineare che quel-
                           l’autore o quel testo, pur essendo temporalmente vicino, è tuttavia per-
                           cepito, per il carattere esemplare con cui si impone, per la sua “com-
                           piutezza” stilistico-formale e contenutistica, come distante, apparte-
                           nente a un’altra epoca.
                                 La distanza però non esaurisce l’area semantica del “classico”.
                           Da sola, infatti, essa è indistinguibile da quell’atteggiamento che ca-
                           ratterizza il nostro rapporto con certi oggetti del passato, come i reperti
                           fossili o i resti archeologici, nei cui confronti attiviamo un sentimento



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