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VALERIA MOGAVERO, Il mito dell’“altra” guerra nel Diario (1939-1945) di Piero Calamandrei


                dano, e auspichino, la sconfi a dell’Italia. In questo nesso tra riflessio-
                ne etico-politica che arranca nel tentativo di guadagnare un orizzonte
                e la frenetica e rincorsa accumulazione di racconti di seconda e terza
                mano, difficili o anche inutili da controllare, si può vedere fissata, in
                qualche misura, la condizione dell’italiano medio, isolato, affli o da
                una interiore solitudine e sofferente di una sorta di agorafobia a ogni
                entrata in un luogo o vagone permeato di discorsi servili.
                     Il murmure, il passo da morto, il cupo metronomo dei rovelli in-
                teriori colonizzano le pagine, vogliono un’epocale sconfi a che, assu-
                mendo latitudini continentali, sia assai più di una «strana disfa a».
                Un ricominciamento. La temuta, finale entropia e il principio di dis-
                soluzione di una cultura e di una società non inchiodate alla croce
                della nazionalità stanno per intero – nel bene e nel male, in ciò che
                della scri ura calamandreiana seduce come in ciò che può disturbare
                e forse anche indispe ire l’odierno le ore del Diario – nella filatura di
                un soliloquio che per pagine e pagine si a orce su se stesso, anche
                quando me e a verbale una folla di interlocutori e la fi a trama delle
                voci e illazioni con cui amici, conoscenti e compagnie occasionali si af-
                facciano alle pagine. A volte sembra che egli scriva per non abbando-
                nare il ductus dei pensieri all’inerzia dello scoramento, sempre a ri-
                schio, se lasciata fuori controllo, di convertirsi in accidiosa dimenti-
                canza delle ragioni etico-politiche dell’a rito con la realtà. La pagina
                di diario serve al giurista anche per schizzare, aggiornare e manute-
                nere una geografia delle vicinanze e delle distanze sue personali, tra
                etica e politica, tra cultura e passione civile, da me ere al sicuro quanto
                meno a futura memoria; e quindi a preservare un abbozzo di biografia
                comunitaria delle presenze che contano, per a utire e medicare, un
                po’ ogni giorno, il sentimento e lo smarrimento della solitudine in cui
                sempre più spesso, e con sempre minore ma non perciò meno amara
                                  20
                sorpresa, si ritrova . Serve anche, il diario, a questa delicata operazio-
                ne di governance della propria disparità; e a non cedere allo spleen.




                20  Sull’incidenza, nella valutazione storiografica e non solo psicologica, della condizione
                di solitudine si veda P.G. Zunino, Interpretazione e memoria del fascismo. Gli anni del regime,
                Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 127-132, corrispondenti al paragrafo Nei «vicoli deserti»
                della società totalitaria.


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