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FABIO MARRI, I “solchi della morte” e il realismo più cupo di Guido Cavani


                     La paura, sentimento ufficialmente esorcizzato nell’epopea bel-
                lica, ma che riemerge spesso dalla presa diretta o mediata dagli au-
                tori , caratterizza i sentimenti e i colloqui dei soldati (tra cui l’autore,
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                che narra in prima persona), «trincerati su di un’arida costa non più
                lunga di una ventina di metri, addossata ad una parete a picco, fra
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                due canaloni di sassi» , lo sguardo fisso su «l’altra costa dove s’an-
                nidava il nemico, e più lontano, quelle bianche montagne sempre il-
                luminate dal sole», ribattezzate «le montagne dei morti» perché «le
                anime di tutti coloro che cadono su questi spalti, in mezzo a queste
                rupi, vanno a scaldarsi a quel sole misterioso». Anche qui, come nel
                Sabato santo, l’interlocutore principale è un soldato proveniente da
                un’isola: la Sardegna, patria di Lodi (nella riscrittura, Ledi), «piccolo
                fante smilzo, nervoso, dal volto di idolo» e gli occhi accesi da «un
                brillio di febbre».
                     La frequenza con cui nei racconti compaiono personaggi meri-
                dionali conferma quanto sappiamo della vita di trincea, prima occa-
                sione di convivenza tra italiani di origini disparate e spesso dai lin-
                guaggi reciprocamente incomprensibili: è immaginabile che anche per
                Cavani, finora vissuto in un quartiere periferico di una piccola ci à
                padana, quelli siano stati i primi “forestieri” conosciuti.
                     Nell’aridità estiva, dove «anche le croci dei morti si sono ince-
                nerite», la guerra sembra concedere una tregua, non però alle paure
                del gruppo:


                   – Oggi è una giornata in cui pare che la guerra stanca di rodere si sia assopita
                   al sole come una serpe – dissi io, – oggi forse non si muore.
                   – A me questo silenzio fa paura – balbe ò l’altro soldato –; stama ina c’erano
                   sui monti nuvole color di sangue.






                18  Cara erizza per esempio i titoli di una poesia di M. Bontempelli (da Il purosangue;
                L’ubriaco, 1919; cito da A. Cortellessa (a cura di), op. cit., p. 277), e della novella di F. De
                Roberto già citata. Ricorre spesso, anche coi sinonimi gergali fifa o spaghe o, in Le scarpe
                al sole di Monelli, o nel Giornale di guerra e di prigionia di C.E. Gadda, Einaudi, Torino
                1965, p. 143 «paura vacca»; e sopra u o p. 166, per la lunga tirata contro i commilitoni
                oppressi da una «paura continua, incessante, logorante […] come delle troie incinte».
                19  A ingo dalla prima stampa del 1953.


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