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Come ricorda Felici nella densa prefazione, il punto di partenza
dell’indagine è un noto topos weberiano, vergato per lettera alla sorella
Lili nel 1912, e ripetuto ancora nel saggio sulla Wertfreiheit (1917): l’in-
tuizione che nur im Okzident abbia preso piede la musica armonica ra-
zionale, l’uso dei cromatismi, la composizione per notazioni. Ma è
sulle condizioni di tale peculiarità che Weber pone un accento per
nulla semplicistico: la razionalità che egli vede all’opera nella produ-
zione musicale – prendendo le distanze da qualsiasi riduzione al
“genio”, ma anche dalle parallele teorizzazioni di un Kunstwollen da
parte di Riegl, sfruttando gli studi più aggiornati di psicoacustica e di-
scutendo un’etnomusicologia ancora ai primi passi – è una razionalità
immanente al sociale, lato sensu tecnica. È il proteiforme organizzarsi
– razionalizzarsi – di poteri e condotte, in varie forme, a innescare
anche l’uso occidentale dell’armonia: dall’emergere della figura del
compositore attraverso l’habitus delle notazioni alle esigenze che por-
tano i monaci a configurare un uso razionale del canto polifonico, dalla
razionalizzazione della danza alla diffusione di organo, clavicembalo
e violino, tutto compone un quadro causale complesso.
Come ogni pagina weberiana, la Sociologia della musica è un elo-
gio della complessità, perché ogni dettaglio è suscettibile di produrre
effetti: dalle diverse accordature derivano diversi stili, diversi abiti so-
ciali provocano il privilegio di alcune tecniche, gli orientamenti puri-
tani ovunque (dai monaci cistercensi ai confuciani) ricusano le raffi-
natezze del semitono, l’uso rituale e culturale del momento musicale
ne avvia una sistematicità stereotipata, e in ciò una forma di raziona-
lizzazione, l’organizzazione corporativa degli artisti favorisce il rico-
noscimento del loro status sociale e un raffinamento tecnico dei loro
strumenti. Di qui, senza rinunciare alle altezze dello specialismo, il
mirabile affresco finale: dove Weber spiega come è cambiato l’ascolto,
cosa abbiamo perso e guadagnato in finezza, e come muti socialmente
pure la vista, che ci fa leggere il pianoforte come un «mobile», a «uso
domestico», prettamente borghese.
Massimo Palma
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