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MICHELE NAPOLITANO, Il liceo classico: qualche idea per il futuro



                           lore, che non conosci sofferenze» (Soph. Phil. 827). Un verso nel quale
                           ogni singola parola ha qualcosa da insegnare a chi voglia trasmettere
                           l’idea dell’alto grado di artificialità proprio della lingua tragica attica
                           di V secolo. Nonostante la stretta contiguità delle due ricorrenze, la
                           prosodia di ὕπνος varia dalla prima alla seconda occorrenza del lesse-
                           ma: nel primo caso il nesso muta cum liquida si dispone eterosillabica-
                           mente, mentre nel secondo la ripartizione è isosillabica, in linea con le
                           norme della prosodia attica, il che spiega come nel primo caso la prima
                           sillaba di ὕπνος possa occupare un tempo forte, realizzare un longum,
                           mentre nel secondo realizzi il primo elemento breve del biceps. Un fe-
                           nomeno, che in tragedia si presenta peraltro non solo nelle sezioni liri-
                           che ma anche in contesti recitativi, che dice del grado di artificialità
                           della lingua della tragedia assai più di qualunque descrizione teorica.
                           Ma lo stesso potrebbe dirsi del genitivo plurale non contratto ἀλγέων
                           a fine verso: l’attico, a differenza di altri dialetti, contrae prestissimo, e
                           nell’attico d’uso di fine V secolo la forma normale, per il genitivo plu-
                           rale di ἄλγος, è naturalmente la forma contratta, ἀλγῶν, non quella
                           non contratta che Sofocle sceglie per chiudere il suo tetrametro. E il ge-
                           nitivo ὀδύνας, da parte sua, può servire a esemplificare un fenomeno
                           che, nelle sezioni liriche di tragedia e commedia, è assolutamente per-
                           vasivo, ovvero il mantenimento dei vocalismi [a:] originari: ὀδύνας,
                           dunque, in luogo di ὀδύνης. Ma persino l’epiteto ἀδαής, che vuol dire
                           “inconsapevole”, “che non sa”, può servire ad attrarre l’attenzione degli
                           studenti, anche se su un altro piano. ἀδαής può favorire una breve
                           escursione nel terreno dell’etimologia, un campo che, per esperienza,
                           so esercitare sugli studenti un fascino invincibile. Ma avrei potuto
                           esprimermi diversamente: avrei potuto dire, ad esempio, che i ragio-
                           namenti etimologici possiedono una straordinaria efficacia didattica, e
                           se avessi usato l’aggettivo “didattico” avrei utilizzato una parola la cui
                           parentela con il greco διδάσκω è piuttosto ovvia, mentre non è affatto
                           ovvio, ed è qui che agli studenti brillerebbero gli occhi, che il fattitivo
                           διδάσκω e ἀδαής procedono dal grado zero di una medesima radice
                           verbale indoeuropea, *dens, il cui significato corrisponde a “apprende-
                           re”. Per un sofferente, come il povero Filottete, niente di meglio che il
                           sonno, che non sa nulla di pene e dolori.
                                 Vorrei insomma un classico capace di far ragionare gli studenti.
                           Un classico aperto certo a sollecitazioni che esulino dall’ambito ristret-



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