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MARIA bETTETINI, Classici e mercato globale. Il caso del mito delle Sirene


                           le compagne di Proserpina, l’avevano cercata dappertutto, e volendo
                           che «anche il mare avvertisse la [loro] sollecitudine», desiderarono di
                           poter volare, lo ottennero dagli dei, e videro «le membra imbiondirsi
                           per improvvise penne», senza perdere volto e voce umani (Metamorfosi
                           V, 544-564).
                                 Ma già l’Eneide aveva nominato le Sirene, i loro scogli «difficili
                           un tempo, e dell’ossa di molti biancheggiano» (V, 865); aveva inoltre
                           descritto mostri simili, le Arpie: «Virginei volti su corpi d’uccelli, puz-
                           zolentissima / profluvie del ventre, adunchi artigli, pallida sempre /
                           la faccia di fame» (III, 216-8).
                                 Solo Ovidio dunque ha una lettura positiva delle Sirene, smen-
                           tito subito da Plinio il Vecchio che le accusa di cannibalismo, se così
                           si può dire, insomma di divorare le loro vittime. D’altra parte la Bib-
                           bia dei Settanta con Seirēnes traduce il termine ebraico che indica gli
                           sciacalli, forse per il loro ululare. Ancora in Girolamo sono sirene e
                           dracones quelli che oggi traduciamo come «animali del deserto» (Is
                           13,12). L’accezione negativa rimane anche negli scritti cristiani, dove
                           vengono intese come simbolo della lussuria e più in generale della
                           tentazione. Così Ulisse è per Ambrogio, nel commento al vangelo di
                           Luca, «prefigurazione di Cristo che resiste alle tentazioni del demo-
                           nio», mentre le Sirene «diventano immagini della rovinosa lusinga
                           del piacere mondano». Le malvagie donne uccello tali rimangono nel
                           Physiologus e nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia, però già l’VIII se-
                           colo vede, nel Nord Europa, la composizione di un Liber monstrorum
                           in cui si scrive di marinae puellae dal corpo di fanciulle fino all’ombe-
                           lico e code squamose di pesce, che celano nei gorghi per ingannare i
                           marinai e sembrare fanciulle in pericolo. Una novità? No, perché
                           donne con la coda di pesce sono inaspettatamente parte della figu-
                           ratività etrusca e sono presenti, pur senza il nome di “sirene”, in di-
                           versi bestiari medievali a noi giunti, quando addirittura non si me-
                           scolavano  pesci  e  uccelli,  come  nel  più  antico  bestiario  francese
                           (1120), in cui Philippe de Thaon descrive le Sirene «con grossi piedi
                           da pollo e con un fondoschiena a coda di pesce» (cap. 15). Il Liber
                           monstrorum ha comunque un primato temporale rispetto alla cultura
                           del Medioevo. Perché il passaggio dal corpo di uccello alla coda di
                           pesce, per queste figure che comunque continuano a essere malvagie
                           e simboli del male? Le ipotesi sono tante, forse le più semplici sono



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