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FABIO MARRI, I “solchi della morte” e il realismo più cupo di Guido Cavani
Ora siamo ancora a riposo in un paesello ove ci sono ancora i borghesi. La
stagione è discreta, ma ci sono già nell’aria i tepori della primavera. Ma che
fascino può avere per noi la primavera? La nostra anima è cupa, troppo cupa
per diffondere il palpito fecondo della giovinezza nelle nostre carni. Io sono
vecchio come questi vecchi fra cui ora mi trovo e come loro sono stanco. È
tanto che si spera, che lo sperare è vano, come è vano vivere, come è vano
morire.
Prevedo che dovrò stare un bel po’ di tempo senza ricevere le vostre lettere,
e questo mi pesa, ma sono rassegnato anche a questo, sopporterò attenderò.
Del resto che debbo fare? Il mondo va alla rovescia. Almeno si spaccasse in
cento mila parti e ruinasse nell’infinità dello spazio, saluterei la sua fine con
una maledizione orribile.
[N.d.A. Seguono de agli di minor conto su le ere ricevute da conoscenti.]
La mia salute è ottima, l’appetito è buono. Il mangiare non manca, è abbon-
dante. Il coraggio di proseguire non mi manca e non deve neppure mancare
a voi. L’umanità combatte le sue tragiche battaglie, e un’oscura sorte l’attende
nel limite della potenza umana.
Sorgeranno rosse aurore, brilleranno rossi tramonti, sulla terra cadrà in piog-
gia tutto questo sangue che si sparge, e così sia.
Baci affettuosi a tutti
Guido
Da una breve cartolina di auguri pasquali diretta alla mamma Co-
rinna il 25 marzo sappiamo che «presto si ritornerà lassù, fra qualche
giorno forse. Lassù dove ancora regna la neve»; mentre nessuna in-
dicazione si ricava dall’ultima cartolina in tempo di guerra (10 set-
tembre, timbro del 12 settembre 1918), la cui illustrazione riproduce
un Frammento di Basilio Cascella commentato «Difendendo la Patria,
Mamma, difendo te», cui Guido aggiunse di suo pugno l’endecasil-
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labo «A te per quel amor che di te parla» .
Da dove esa amente Cavani scrivesse, si può forse ricavare da
qualche sua poesia di poco posteriore alla fine della guerra (il servizio
6 Sic. Non saprei se con questo verso l’autore riecheggiasse l’apostrofe di Ele ra alla madre
Clitennestra nell’Agamennone alfieriano (I 3): «Per quell’amor che a me portasti, ond’io /
oggi indegna non son; che più? Ten priego, / per la vita d’Oreste, o madre, arretra».
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