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FABIO MARRI, I “solchi della morte” e il realismo più cupo di Guido Cavani



                   lontà era più forte del male che la rodeva da tanti giorni togliendole ogni fi-
                   ducia nella vita .
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                La fucilazione ha luogo: al cadere dei due uomini, pure Rosalba svie-
                ne. Al suo risveglio, il prato dell’esecuzione è deserto. Un’altra giornata
                sta cominciando, ma so o il segno della morte e del sangue (come il
                soldato Cavani aveva scri o in chiusa della sua le era del 3 marzo
                1918): «I cipressi erano diventati più neri; a oriente, verso la pianura,
                il cielo brumoso sembrava macchiato di sangue».
                     La guerra dunque, oltre a essere inutile agli scopi per cui è sca-
                tenata, ha il potere di abbrutire l’umanità, persino quella «quieta e
                semplice» come Rosalba, che ne viene comunque e suo malgrado coin-
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                volta sino a «metamorfosarsi» anche nell’aspe o .
                     Cavani non dimenticò mai il suo anno e più di trincea; e se nel
                suo capolavoro, stampato quarant’anni dopo Vi orio Veneto, ci sono
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                solo radi accenni all’ambiente militare , tu avia volle chiamarne il
                protagonista con un nome, pressoché inusitato per una persona, ma
                ben presente a chi aveva memoria del confli o mondiale, specialmente
                a chi aveva comba uto sull’altopiano di Asiago o ne leggeva sulle pa-
                gine di Lussu (la cui brigata presidiava Casara Zebio, distru a da una
                mina nel giugno 1916).






                46  Ivi, p. 215.
                47  Cfr. A. Cavalli Pasini, op. cit., p. 84.
                48  Il più esteso, e dai tenui punti di conta o col racconto Paolino e Carmine, è all’inizio
                del cap. 17 (G. Cavani, Zebio Còtal, cit., pp. 107-110), quando Zebio entra in un’osteria
                dove i giovani di leva stanno festeggiando l’ultimo giorno di vita civile, bevendo, bal-
                lando, tentando le donne («Uno dei giovani, rimasto solo, abbracciò l’ostessa tentando
                di trascinarla nel ballo, ma la donna si divincolò e corse in cucina»). Significative le
                ba ute scambiate tra Zebio e un coscri o: «Uno dei giovani scosse la testa. – Non siamo
                allegri, vecchio mio, – disse – si canta per non piangere. – E sia, – disse Zebio – datemi
                la vostra gioventù ed io faccio il soldato per tu i». Più avanti, nel cap. 27 (ivi, p. 176),
                Zebio errabondo e accolto in una casa cantoniera, al momento di ripartire o iene un
                «vecchio pastrano militare» e un misterioso involto, che il padrone di casa così presenta
                alla moglie e all’ospite: «Quell’altro affare là è un tascapane con borraccia infilata; – con-
                tinuò il cantoniere – cimeli storici che hanno visto molte cose importanti, ora quasi del
                tu o dimenticate: me ici dentro un poco di pane, un pezzo di formaggio, riempi la bor-
                raccia di vino, così l’ospite è servito anche per doma ina». Anche il Santu della Gave a,
                bu ata via la pasta, mangia pane e formaggio.


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