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Don DeLillo, Zero K, traduzione di Federica Aceto, Einaudi, Torino
                2016, 248 pp., 19 euro.


                «Tu i vogliono possedere la fine del mondo»: così si apre Zero K, l’ul-
                timo romanzo di Don DeLillo. Diversamente dal suo amico e collega
                Thomas Pynchon, da anni ormai DeLillo ha vinto la sua proverbiale
                ritrosia e ha acce ato di apparire sporadicamente in pubblico, conce-
                dendo anche qualche intervista. Quando uno scri ore così riservato e
                rice ivo – che Martin Amis ritiene dotato di «antenne da visionario»
                – improvvisamente decide, come ha fa o DeLillo nel febbraio 2016 a
                Parigi, di partecipare addiri ura a una conferenza su di lui, allora è il
                caso di ascoltare a entamente cos’ha da dirci sulla fine del mondo.
                     Sin dagli esordi DeLillo ha affrontato nella sua narrativa alcuni
                tra i nodi più controversi della recente storia americana, intingendo la
                penna nelle piaghe corro e dell’American Dream, quelle ferite mai
                del tu o guarite che periodicamente riappaiono a tormentare la na-
                zione, come il terrorismo urbano (Players, 1977), la confluenza nefasta
                di consumismo, inquinamento e angoscia esistenziale (White Noise,
                1987), i complo i legati all’omicidio di Kennedy (Libra, 1988), i rap-
                porti tra mass-media, scri ura e terrorismo (Mao II, 1991), fino alla ri-
                le ura critica della paranoia della Guerra fredda inscri a nell’opera
                mondo che a tu ’oggi resta il suo capolavoro, Underworld (1997). Negli
                ultimi anni la prosa di DeLillo ha subito un processo di rarefazione,
                riducendo all’osso le descrizioni, abolendo ogni dato superfluo e pun-
                tando a un’astra ezza quasi metafisica, che ci parli degli a entati alle
                Twin Towers (Falling Man, 2007) o, come in Zero K, dell’ibernazione
                umana come tecnica per sconfiggere la morte nella speranza di risve-
                gliarsi nel futuro dotati di un corpo geneticamente migliorato, ringio-
                vanito, forse addiri ura eterno.
                     Un enorme complesso di edifici futuristici nel deserto del Kaza-
                kistan, a metà tra un tempio e una clinica di medicina avanzata – tra
                scienza e trascendenza –, fa da ambientazione alla prima e all’ultima
                sezione del romanzo. Nel mezzo c’è una New York babelica, multiet-
                nica, chiassosa e disordinata, quella in cui vive il narratore, Jeffrey Loc-
                khart, trentaqua renne alla costante ricerca di una direzione da im-
                boccare; tu o pur di non seguire le orme del padre Ross, multimilio-
                nario che invece ha deciso di investire ogni risorsa, anche emotiva, nel



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